TREDICISTA IN TEMPO DI PANDEMIA


Francesca Coriale

Tredicista in tempo di pandemia

Un tredicista non ha sconti né superpoteri, ma ha la consapevolezza di essere colui che meglio conosce cosa sia il tanto citato “spirito Safa: quel sentimento di unione, tenacia e cura che soltanto una volta fuori ci si rende conto di aver ereditato; spirito che però viene messo a dura prova se estirpato dal suo luogo naturale, la scuola, prima della scadenza. La quinta superiore avrebbe dovuto essere la conclusione di un percorso durato tredici anni, dodici aule e più di trenta insegnanti; avrebbe dovuto essere un anno speciale, ma sicuramente non per come poi si è sviluppato.

Se essere all’ultimo anno è per tutti sinonimo di euforia mista a paura, per un tredicista l’emozione che prevale, almeno a settembre e poi a giugno, è la nostalgia, perché più di chiunque altro sente addosso il peso degli anni: vede i bimbi di prima elementare e pensa che tredici anni prima c’era lui al loro posto, vede i ragazzini di prima media ancora troppo bambini per capire che non si può chiamare maestra la professoressa di matematica e infine vede i primini del liceo, con le loro espressioni ingenue di agitazione e l’asma per i tre piani di scale appena fatti. A pensarci ancora fa effetto: soltanto tre piani di scale, eppure rappresentano i tre quarti della mia vita.

L’essere tredicista, però, non è solo motivo di malinconia cronica, anzi al contrario è soprattutto motivo di orgoglio: conosci ogni singolo angolo della scuola – anche il posto dove i fratelli nascondono la Nutella – conosci tutti, insegnanti, bidelle, cuoche, fratelli, non uno che non sappia il tuo nome. Motivo ancora più di orgoglio, però, è la tanto attesa cerimonia di fine anno, perché lì ti rendi davvero conto che anche tu sei parte fondamentale della Safa; almeno così dicono: noi quest’anno abbiamo avuto un piccolo contrattempo, che poi di piccolo ha solo le dimensioni fisiche, perché per il resto è più simile a un terremoto.

Essere un tredicista è già di per sé strano, in pochi resistono così a lungo, ma esserlo nel 2020 penso abbia toccato apici di fantascienza: a settembre organizzavamo il tema della nostra ultima foto di classe, a maggio la foto l’abbiamo fatta seduti in camera nostra davanti a uno schermo; a settembre progettavamo il nostro ultimo giorno di scuola, la nostra gloriosa uscita dalla Safa, a giugno ci siamo salutati con un “buono studio, ci rivedremo non appena potremo”; a settembre tutti tremavamo al solo sentire la parola maturità, non sapevamo che la vera tragedia non sarebbe stato l’esame in sé, quanto i tre mesi precedenti. Infine, in terza elementare avevo giurato a me stessa che fosse cascato il mondo io avrei partecipato a quella famosa cerimonia dell’ultimo anno – che fin da piccoli viene vista alla pari dell’investitura dei cavalieri della Tavola Rotonda – in quinta superiore il mondo è caduto e io la cerimonia non l’ho vista neanche dallo schermo di un computer.

Ora ho iniziato l’università e vedo i nuovi tredicisti entrare in una scuola da cui io non sono mai veramente uscita, come quando tornata in classe lasciavo la porta aperta, come un capitolo in cui non è stato messo il punto finale. Forse però è meglio così, un giorno scriveremo la parola fine anche a questo capitolo e lo faremo in grande stile, come ai vecchi tempi, e allora potremo dire di essere veramente tornati alla normalità.

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