Ti dico la mia
Edoardo Valente
Poe… poeta?
Recensione delle poesie di Edgardi A. Poe
Quanti di noi non hanno mai sentito parlare del lugubre Edgar Allan Poe? Quanti non sono a conoscenza dei suoi racconti dell’orrore? Qualcuno avrà pur sentito parlare della sua più celebre poesia, “The Raven”, “Il Corvo”.
Ma quanti conoscono “Al Aaraaf”? E quanti “Israfel”? Neppure “La valle dell’inquietudine”? Eppure “A Elena” è famosa. “A Zacinto”, questa la conoscete di sicuro! No, non quella dell’italiano, Foscolo, non c’entra nulla, io parlo di quella scritta dall’americano, Poe. Niente? Proprio nulla? Che strano, Edgar era un poeta fantastico, ha scritto anche un paio di saggi sull’arte del poetare, ma a questo punto, se mi dite che non lo sapevate, non mi stupisco più.
Ebbene sì, Poe poeta!
Di questo suo aspetto, però, ci giunge sempre poco: nella cultura di massa Edgar è semplicemente quell’omino baffuto dall’aria lugubre e tetra spesso accompagnato da un gatto o da un corvo, mentre scolasticamente viene principalmente ricordato per i suoi contributi, non indifferenti, alla letteratura, ovvero per aver dato, con i suoi racconti, un contributo fondamentale alla letteratura dell’orrore e aver introdotto il genere poliziesco. Eppure, c’è dell’altro.
Nell’introduzione alla raccolta di poesie che venne pubblicata nel 1845 Poe scrive: “Per me la poesia non è un proponimento, ma una passione”. Specifica anche che, a causa di eventi a lui esterni, questa passione non si è mai potuta sviluppare come avrebbe desiderato, e questi eventi possono essere facilmente intuibili. È noto a tutti qual è stato il suo stile di vita: orfano, senza eredità, marito di una donna giovanissima (sua cugina Virginia, che al tempo del matrimonio aveva la metà dei suoi anni), in un costante stato di povertà, indebitato fino al collo e, per non farsi mancare nulla, fece anche abuso di alcolici. Qualcuno potrebbe dire che “se l’era cercata”, in quanto fu uno dei primi statunitensi a tentare di sopravvivere soltanto con i proventi delle sue opere, ma le passioni non si possono rifiutare. Ciononostante, la sua passione nella passione, la poesia, dovette sempre venire accantonata, in quanto erano principalmente i suoi racconti dell’orrore che i giornali sceglievano di pubblicare, quindi le sue uniche fonti di guadagno. Infatti, come dice sempre nell’introduzione alle poesie: “Esse [le passioni] non devono, esse non possono essere suscitate a volontà, con l’occhio rivolto a meschine ricompense, o agli encomi, ancor più meschini, dell’umanità.” Per questo Poe si concedeva di sopravvivere mercificando i propri racconti e si impediva categoricamente di poter fare lo stesso con le sue poesie.
Ma, al di là de “Il Corvo”, quali sono queste fantomatiche poesie?
Alcune le ho citate in apertura, ma, dietro questi titoli assurdi e spesso estranei, si nascondono versi di rara bellezza. Di sicuro, non è un grande innovatore della poesia, anzi, è perfettamente in linea con il clima del secolo, e si rifà molto alla tradizione del Vecchio continente: elementi classici che rimandano alla Grecia antica e al Cristianesimo vengono contaminati con il fascino per il “lontano” Medio Oriente, il tutto imbastito dal macabro e dal tetro. “Dolce sollievo nell’ora in cui si muore”, esclama Tamerlano nel primo verso dell’omonima poesia. Questo stile avrà un’influenza sul Decadentismo francese e sia Verlaine che Baudelaire saranno suoi estimatori. Quest’ultimo scrisse di Poe: “L’ardore stesso con cui egli si tuffa nel grottesco per amore del grottesco e nell’orrido per amore dell’orrido, mi aiuta a verificare la sincerità della sua opera e la consonanza dell’uomo col poeta.” E, trattandosi di Baudelaire, non poteva non essere presente un elogio all’ubriachezza nella quale Poe cadeva con costanza, e che era considerata dal poeta francese un metodo di lavoro energico e mortale: “una parte di quanto oggi suscita il nostro godimento è ciò che l’ha ucciso.”
Addentriamoci ora in questi versi, nei corridoi del loro intestino, facciamone un’autopsia, fino a raggiungerne il cuore pulsante, fino a scarnificare la poesia.
Nella vita di Poe, come, di conseguenza, nella sua poesia, ritornano costanti alcune figure femminili, alcuni nomi -Helen, Lenore- che rappresentano donne che egli ha amato di un amore impossibile, ma è un’impossibilità che va oltre i tormenti di un cuore romantico, poiché il confine che lo separa dalle sue amate è la morte. Facendosi carico di una tradizione di poeti che tristemente affrontano la morte della donna amata, Poe diventa involontariamente un loro erede spirituale, che racchiude in splendide crisalidi dorate l’ottenebrato destino dei suoi amori. “… e le carezze dell’amore – / oh, lasciatele da parte! / Son esse leggere sulle chiome, / ma piombo sul cuore”, scrive Poe in “Al Araaf”, andando a delineare, e forse preannunciare, il suo rapporto con l’amore, che spesso diventa sinonimo di morte.
Come sarà letto il funereo rito?
E intonato il solenne canto?
Il requiem per la morta più amabile
che mai sia morta così fanciulla?
Così si inaugura la poesia “Peana”, riferimento ai canti corali in onore di Apollo, in cui viene descritta la morte di una giovane fanciulla e la preoccupazione del narratore per la sua voce, che non reggerà abbastanza alle emozioni, quindi non riuscirà ad intonare per lei il canto funebre, poiché “io son ebbro d’amore / per lei morta, che è mia sposa.” E questa “lei” risulta essere Elena, un nome già presente nelle poesie di Poe, un senhal dietro al quale, con molta probabilità, si nasconde una donna della quale si infatuò da ragazzo, la madre di un suo compagno di scuola che morì in giovane età.
Elena, la tua bellezza è per me
come quei navigli nicèi d’un tempo
che, mollemente, sull’odorato mare,
riportavano il pellegrino stanco d’errare
alla sua sponda natìa.
Appare qui per la prima volta questa donna dal fascino etereo. “A Elena” è infatti il titolo della poesia, la prima delle due che portano questo titolo. Ma, per giungere alla seconda, che sarà però dedicata ad un’altra donna, si deve seguire il percorso tracciato da questo nome.
Che sia lei l’abitatrice dei cieli alla quale “A una in Paradiso” è dedicata? Può essere lei, può non esserlo, ma ciò che Poe ci consegna con questi versi intessuti di lirismo è un sentimento estremamente dolce e, insieme, drammaticamente triste. “Ah, sogno splendido e breve!”, questo fu il suo amore, e nulla più. E ancora in questa poesia si trova un altro elemento che, come il nome delle amate, fa da ritornello al suo intero componimento poetico: il “mai più”.
Perché mai più, oh mai più per me
risplenderà quella luce di Vita!
Mai più – mai più – mai più –
(è quel che il mare ripete
alle sabbie del lido) – mai più
rifiorirà un albero percosso dal fulmine,
né potrà più elevarsi un’aquila ferita.
È in questa ripetitiva esclamazione, che diventa disperazione, che alberga il senso della morte, che non accade semplicemente in un momento, ma si perpetua eternamente, proprio come il movimento delle onde marine.
Lasciando che l’eco del “mai più” continui a fare da sottofondo alla lettura, è necessario fare un passo indietro, tornare a “Peana”, sui quali argomenti si fonda “Lenora”, altra struggente commemorazione di una fanciulla morta in gioventù.
Quell’aurea coppa s’è infranta – fuggito lo spirito per sempre!
Rintocchi di campana! – un’anima santa discende allo Stige.
In poche parole, si sente l’influsso, sulla poesia di Poe, quindi sul suo lessico, sulla sua cultura e tradizione, dei grandi temi che affondano le radici all’origine del mondo. “Un’anima santa discende allo Stige”: grecità e Cristianesimo in commistione. E per questa povera anima “ora piangi o mai più!”. È anche qui, è tornato ancora il “mai più”. Infine, indubbiamente memore della “Peana”, Poe conclude:
Ed io – più lieve è il mio cuore stanotte – non canterò nessun inno funereo,
ma il mio angelo sosterrò nel suo volo con una peana d’antichi giorni.
Probabilmente qui Poe ci sta dicendo che non canterà di nuovo per la giovane defunta, perché già l’ha fatto nella “peana d’antichi giorni” – la prima poesia citata – e, così facendo, non rischierà di sentir cedere la sua voce sotto il peso del dolore.
E se si volesse ipotizzare a quale donna della realtà corrisponda il nome “Lenora”, la soluzione sarebbe impossibile da trovare. Edgar Poe, partendo da “A Elena” ha costruito nel tempo un folto numero di poesie dedicate a donne realmente o illusoriamente amate, o che spesso risultavano come tali soltanto all’interno della cornice poetica; come se l’amore, anche artefatto, fosse necessario per la sua produzione poetica. Compaiono più e più volte alcuni versi che Poe ha scritto per qualcun altro, che dedica a qualcun altro, ma la dedica resta vuota. “A —” vengono intitolate queste poesie, e forse quel vuoto è destinato a rimanere così perché ormai tutti gli amori sono confusi, tutte le donne si confondono davanti al suo sguardo animato da lucida follia: ogni amore viene cristallizzato in una dedica poetica e il destinatario diviene l’amore stesso. Tutto appare come “Un sogno dentro a un sogno.”
[…] tutti furono un sogno i miei giorni;
e, tuttavia, se la speranza volò via
in una notte o in un giorno,
in una visione o in nient’altro,
è forse per questo meno svanita?
Ed è in tale perpetuo sognare che il nome di “Elena” si invola dall’antica proprietaria, per andare altrove, titolando la seconda “A Elena”, dedicata a una poetessa che conobbe qualche anno prima e che venne scritta nello stesso anno (1848) in cui conobbe un’altra donna, alla quale fu dedicata “Per Annie”:
Ma è il mio cuore più smagliante
di tutte le innumerabili
stelle del cielo:
perché risplende con Annie,
arde nella luce
dell’amore di Annie,
nel pensiero della luce
che è negli occhi della mia Annie.
Davvero poté Poe amare questa donna? La amò nello stesso periodo in cui corteggiava Sarah Whitman? Oppure quando stava per chiedere la mano di Sarah Elmira Royster? O subito dopo aver concluso la -presunta- relazione con l’amica e poetessa Francis Osgood? Tutti questi nomi, queste donne, questi amori si accavallano e si confondono, ma probabilmente nessuna di esse venne da lui veramente amata, poiché il suo cuore, ammesso che ancora battesse dentro quel corpo, non era più con lui, ma in una tomba insieme a sua moglie.
Fu nel 1847 che, seguendo un destino tracciato sin dai primi versi, Virginia, la moglie di Poe, la donna che non solo in un’illusione, ma anche nella realtà ha amato, la giovane fanciulla amata, morì. Con questa morte è morto anche Edgar, poiché è morto in lui l’amore, quindi la poesia, quindi il pilastro del suo vivere.
Non se ne è accorto subito, ha sentito ancora il suo petto palpitare, ha tentato di colmare in maniera confusa quel vuoto che percepiva spandersi in lui, ma ogni tentativo è stato vano. Viene pubblicata postuma “Annabel Lee”, un’altra poesia che reca il nome di una donna, che però non è un’altra, ma è l’unica.
Or son molti anni e molti anni
che in un regno in riva al mare
viveva una fanciulla che col nome
chiamerete di Annabel Lee;
e viveva questa fanciulla con non altro pensiero
che d’amarmi e d’essere amata da me.
[…]
Ma molto era più forte il nostro amore
che l’amor d’altri di noi più grandi –
che l’amor d’altri di noi più savi –
e né gli angeli lassù nel cielo
né i demoni dentro il profondo mare
mai potran separare la mia anima dall’anima
della bella Annabel Lee –
[…]
e così, nelle notti, al fianco io giaccio
del mio amore – mio amore – mia vita e mia sposa,
nel suo sepolcro lì in riva al mare,
nella sua tomba in riva al risonante mare.
Quando Poe potrà riabbracciare la sua perduta e amata Virginia?
Diamole un altro nome, ad esempio Lenora, e facciamoglielo domandare ad un corvo. Poiché è qui che ci hanno condotto le onde del “mai più”, che tutte confluiscono sulla stessa sponda, una sponda datata 1845, bagnata anche dalle onde della malattia di Virginia, dall’alcolismo, da alcuni fugaci successi editoriali; ed è al culmine della disperazione che scaturisce l’arte più vivida e immortale.
L’anno successivo, in un breve saggio intitolato “Filosofia della composizione” Poe avrebbe scritto: “La morte di una donna è indiscutibilmente l’argomento più poetico che vi sia al mondo”, ed era con questo presupposto in mente e con gli altri presupposti esistenziali che Poe ha scritto “Il Corvo”. Nel breve saggio citato, il poeta descrive minuziosamente ogni passaggio tecnico che lo ha condotto a scrivere la sua più celebre poesia, l’unica che, tra tutte quelle che ho citato, emerge e le sovrasta. Ma al di là della tecnica, quello che rende veramente viva questa poesia è quello che l’autore ha saputo raccontare di sé scrivendola. Al di là della struttura, la differenza viene fatta dagli elementi con i quali essa viene riempita. E non sono elementi qualunque, ma sono il risultato di un percorso, in cui tutti i temi qui analizzati confluiscono perfettamente.
“Once upon a midnight dreary”, “Una volta, in una tetra mezzanotte”; questo il già drammatico inizio del componimento. Al centro di quello che è a tutti gli effetti un racconto, ammantato però di poesia, c’è un uomo che spende la notte su volumi “d’obliata sapienza”, tormentato dall’assenza di Lenora, la sua amata deceduta, finché non si sente bussare. Forse è alla porta, invece è alla finestra, e l’ospite è un maestoso corvo, approdato dalle sponde della notte. L’uomo inizia a fargli delle domande, prima semplici, poi sempre più articolate, ma una sola parola è concessa al corvo: “Nevermore”, “mai più”. E attorno alla statica monotonia di questo uccello demoniaco, l’uomo tormentato costruisce la propria sofferenza, la esternalizza, per renderla evidente a se stesso, per rendere palpabile questo sentimento. Sa già quale sarà la risposta, ma pone comunque la domanda. È lo stesso Poe a dircelo: “E le porrà, tali domande, non certo perché crede nella natura profetica o demoniaca dell’uccello, ma perché prova un parossistico piacere nel formulare le sue domande in modo da ricevere dall’atteso “Nevermore” il dolore più delizioso proprio perché insopportabile.”
Infine, il corvo vola via, lasciando per sempre il segno della sua ombra, dalla quale l’anima del narratore -così come quella dello scrittore e del lettore- non si solleveranno mai più.
E mai più ignoreremo le poesie di Edgar Allan Poe, mai più le dimenticheremo, mai più vivremo emozioni come quelle che i suoi versi fanno scaturire – mai più.
Quoth the Raven: “Nevermore”
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