C’è vita oltre la scuola

Il Coronavirus e la Peste di Boccaccio

Stefano Actis

Il Coronavirus e la Peste di Boccaccio:
Così simili gli uomini, così diverse le società

La peste di Firenze del 1348  è la situazione  che fa da sfondo al Decameron di Giovanni Boccaccio e, nell’introduzione, viene descritta soprattutto nei suoi aspetti sociali, rendendo fin dall’inizio l’opera una commedia umana di grande verosimiglianza psicologica e di valore attuale, come si vedrà nelle cento novelle.

La descrizione delle conseguenze della malattia parte da un’assenza: quella della legge e della politica, che porta a due reazioni opposte, l’isolamento più totale o la trasgressione di qualsiasi norma ragionevole, uno scontro sempre vivo e dalla difficile soluzione.

L’isolamento genera il cinismo e l’abbandono della socialità e delle aggregazioni  tra persone, a partire dalle più grandi e dispersive, come le funzioni religiose e le chiese – tanto che non viene permesso al morto il funerale nella chiesa predestinata, ma nella più vicina – per arrivare al nucleo familiare, che si disgrega con l’abbandono dei componenti nel momento della malattia. «Era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini, […] che li padri e le i madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”, e quindi gli ammalati sono costretti ad affidarsi a disperati che li assistono durante la dipartita e spesso, a loro volta contagiati, finiscono per seguirli nei giorni successivi.

L’atteggiamento opposto, l’abbandono libertino di ogni costume, è perfettamente descritto nell’introduzione alla I giornata del Decameron, in cui si descrive la condotta delle donne che si offrono liberamente a ogni uomo che possa garantire assistenza. Questa corruzione dei costumi, come osserva Boccaccio, è una ferita che non si risana con la fine della pestilenza, ma continua anche dopo.

La caduta delle tradizioni è mostrata anche nel momento della morte delle persone, le cui spoglie vengono affidate a funzionari della chiesa e accompagnate nuovamente da estranei, i becchini, che, dietro pagamento, le depongono nel primo fosso disponibile. I familiari sopravvissuti non osservano, come da tradizione, il lutto, ma «anzi in luogo di quelle s’usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole».

La situazione non è sicuramente migliore nel contado, con i campi abbandonati e i morti per le strade, mentre la natura continua in solitaria, con gli animali da allevamento che si riscoprono selvaggi, procacciandosi il cibo senza il pastore.

La chiosa finale di Boccaccio evidenzia l’aggressività e la velocità della malattia, che colpisce tutti i ceti e tutte le età, portando un vuoto che si tramuta in una ferita difficile da rimarginare per tutta la società.

La pandemia da Coronavirus attuale suggerisce un confronto con la peste del 1348, soprattutto nelle sue conseguenze sociali e politiche. Come si è detto, è proprio la politica a mancare in quei tempi difficili, facendo cadere la macchina della società; questa si presenta invece come collante nella situazione attuale, sia dal punto di vista mediatico, con la continua presenza in televisione del Presidente del Consiglio, sia dal punto di vista legale, con le manovre economiche e soprattutto con le limitazioni e le ben note multe. La presenza statale aiuta il popolo a individuare i comportamenti corretti da adottare, eliminando con azioni di polizia la frangia libertina che, come nel Decameron, si era mossa fin da subito. Inoltre, tiene unita la società incoraggiando l’identificazione collettiva nelle leggi e nelle tradizioni italiane.

Tuttavia, se la politica negli anni si è evoluta, del comportamento umano davanti all’emergenza non si può dire lo stesso. All’inizio dell’epidemia sono state prese d’assalto le stazioni ferroviarie, come quella di Milano Centrale, per scappare ognuno nel proprio “contado”, con l’unica conseguenza di accelerare la diffusione della malattia. Altro aspetto che si ripete è la visione del morbo come di una punizione, che, mentre nell’ottica medievale è divina («ira di Dio»; «la crudeltà del Cielo»), per il mondo contemporaneo prende una piega animista, vedendo la pandemia come un processo di pulizia della Terra dall’inquinamento umano. Seguendo quest’ottica, la malattia non è più un nemico invisibile, che colpisce in fretta e si muove nell’aria come un odore invisibile, ma come un vero e proprio invasore che va combattuto, e che è definito nei termini propri della guerra e delle sue dinamiche: come durante un conflitto, i civili devono nascondersi nelle proprie case, mentre gli eroi combattono in prima linea; questi ultimi, nel caso della guerra, sono soldati, nel nostro i medici.
I comportamenti sociali irregolari vengono in questo modo limitati ad una frangia ridotta, mentre la maggior parte delle persone non si rivela cinica come i fiorentini del 1348, ma cerca metodi alternativi di comunicazione e, attraverso le moderne tecnologie, tenta di non abbandonare gli infermi, restando nei limiti della legge.

Accanto alle vecchie tradizioni, in un processo di cambiamento e trasformazione, se ne creano di nuove, e allora la sera alle sei vi è la conferenza stampa del capo della Protezione Civile che enuncia i dati di morti, guariti e contagiati, assumendo una forma quasi rituale per le famiglie italiane, con effetti riconducibili al triste stupore che Boccaccio mostra alla conta dei morti.

La nuova pandemia ha risvolti sociali con caratteristiche simili alla peste del Trecento sul piano soggettivo, ma queste, portate su un piano collettivo, si appiattiscono grazie all’intervento della società e della scienza, che, in un periodo denso di dubbi, cercano di presentarsi come punti fermi per i cittadini, aiutandoli a superare questo periodo di difficoltà, almeno nell’immediato.

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